"Quando tu stavi seduta laggiù (...) io dicevo: "Se Ella (...) mi pensa io sono vivo per lei". Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me (...) ma vedi? E' questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò più vivo per te mai più!" (Pirandello.)
Voglio iniziare questo articolo con le toccanti parole che Pirandello rivolge alla madre morta, perché esemplificano efficacemente quello che s'intende per Origine non già come luogo geografico di provenienza, (la terra in cui si è nati), piuttosto Origine come luogo mentale, stato psichico primario. Questi, al contrario della provenienza territoriale che è suscettibile di trasferimenti, cambiamenti, migrazioni, è il punto d'inizio dal quale si incomincia a percepire l'essere nel mondo e che racchiude la storicità dell'individuo.
Più che una sensazione si tratta di una condizione mentale, resa possibile e fruibile dalla presenza delle cure materne che danno al bambino la percezione di sé nel mondo in assetto armonico. Parafrasando Pirandello, l'individuo sente di esistere se è vivo nella mente della madre.
E' noto che quando il bambino, soprattutto durante la prima infanzia (0-3), è sottoposto a situazioni traumatiche, va incontro a frammentazioni, cioè si rompe qualcosa dentro di sé, si dice allora che si rompe la continuità del sé (Winnicott); ciò avviene anche perché l'equipaggiamento psicologico di cui dispone a quell'età non è abbastanza maturo e funzionale per affrontare stimoli che provengono dal mondo esterno che siano o troppo forti d'intensità o troppo insistenti, insinuanti, subdoli, e, soprattutto, mancanti di senso, incongrui, confusivi. Succede allora che il piccolo, se viene a mancargli l'accurato e puntuale supporto materno, non potendosi difendere adeguatamente, come succederà in seguito quando lo strumentario psichico sarà maturo, crolla psicologicamente; interviene cioè una sorta di blackout delle funzioni percettive e subentra un disorientamento emotivo molto forte che assume cifre disorganizzanti.
Poiché chi non ha subito questa devastante esperienza può non coglierne il patos, userò una metafora per dare al lettore un'idea di ciò che succede o, di più, tenterò di riprodurre uno stato emotivo che serva ad immedesimarsi poiché è molto importante, a volte, riuscire a provare, anche in parte, lo stato emotivo di chi vorremmo comprendere ed aiutare.
Avete mai visto un tornado in azione? Quando sconquassa le case, frantuma tutti i vetri, apre letteralmente le fondamenta, tira giù i tetti, cancella le strade, rende irriconoscibili interi paesaggi, spazza via scuole, giardinetti, il negozio di giocattoli in fondo alla strada, la gelateria dove si andava a comprare il gelato? E infine, quando è passato, ti lascia sgomento e confuso e pensi che non ce la farai a ricostruire con le tue sole forze. E' in quel momento che hai bisogno di qualcuno che non faccia domande. E del resto, quali risposte si possono dare? Non puoi darle, non ce la faresti. Potresti piuttosto facilmente lasciarti morire, anzi, in quel momento, ti sembra la cosa più facile e consequenziale; in quel momento hai bisogno solo di qualcuno che si metta con te, in silenzio, a ricominciare, che ti dia una mano, serena, non inquieta, non aggressiva né energica, ma cauta, discreta, determinata, confortante e soprattutto paziente e lenta, che pensi alla tua condizione, non alla sua fatica. Insieme passate tra le macerie (gli effetti del crollo psichico) a raccogliere pezzi sparsi, anche dettagli minuti, che paiono ininfluenti ma che vanno rimessi insieme, ricollocati, poiché sono la tua storia, anche se, probabilmente, la nuova versione non sarà mai più come quella originaria.
Queste brevi note sullo sviluppo emotivo servono per comprendere quanto sia, per il bambino, salvifico avere un Io ausiliario che lo aiuti a tenere insieme le sue esperienze, dando ad esse un nome che serva a dare senso alla sua storia.
Sebbene la madre durante gli ultimi mesi di gravidanza, e per un anno a seguire la nascita del suo bambino, si "ammala" di quella che Winnicott definì preoccupazione materna primaria e, più tardi, Bion chiamò rèverie materna, stato mentale momentaneo attraverso il quale la madre entra in piena sintonia con lo stato mentale del suo bambino, prevenendo e prevedendo i bisogni che il piccolo non è ancora in grado di esprimere con chiarezza; tuttavia, aldilà di tale condizione fisiologica, si è appurato che la funzione materna prescinde dall'essere madre naturale o adottiva, e prescinde persino dall'essere donna o uomo, giovane o anziano, genitore o educatore che sia; è piuttosto una capacità dell'individuo dotato del talento di prendersi cura dell'Altro e comprenderne i bisogni anche inespressi così come farebbe una madre dotata di "preoccupazione materna primaria".
La madre, o comunque la "funzione materna", esercitata cioè anche da un succedaneo materno, risulta in questi casi fondamentale, poiché si configura come la memoria (Artoni, 2012), mette insieme i pezzi sparsi, aiuta a recuperare il significato delle emozioni vissute, in una parola, abbraccia la mente del bambino.
A volte, accanto ad una madre incompetente affettivamente, anche nonostante i suoi sforzi, la presenza di un'altra donna che la sostenga all'inizio della maternità, può essere di grande aiuto. Penso alla presenza di una nonna, una zia, un'amica più grande e già esperta ma anche un compagno cui appoggiarsi, può svolgere quella condizione happy end simile a quella che ritroviamo appannaggio degli adolescenti svolta da figure di riferimento chiamate Compagno Adulto (CA)* o Compagno di Riferimento (CR)*.
E il bambino adottato?
Il bambino adottato rischia di essere astorico. Se privato della sua storia passata, della sua origine, può sviluppare, inconsapevolmente, l'inermità del presente.
Come dice la psicoanalista Claudia Artoni Schlesinger nel suo bel libro "Adozione e oltre", edito da Borla, "Il bambino adottato arriva ai suoi genitori adottivi, privo di questa memoria, privo di qualcuno che possa ricordare per lui e con lui".
L'aspetto del ricordare diviene allora non un mero esercizio mnemonico di episodi sparsi ma è un'operazione sublime che collega fili spezzati, dà significato ad esperienze che sono nel bambino confuse, nebulose, non soltanto non fruibili ma, peggio, terrifiche.
Nel ricordare prende corpo la narrazione (Ferro, 1992) attraverso la quale, tornando sulla storia del bambino e recuperandola, si restituisce a lui significato e memoria.
Nei legami adottivi, o meglio, affinché l'adozione possa svilupparsi in un legame adottivo, la funzione materna, la rèverie, la preoccupazione materna primaria, possono allocarsi nella narrazione.
Aiutare il bambino a ricordare, non necessariamente fatti accaduti realmente, bensì immaginati, fantasticati, sognati, soffermarsi nei particolari sfuggenti della sua storia, veritieri o immaginifici che siano, e condividerli, trasformare le ombre in coni di luce, chiamare le cose col loro nome, raccogliere i dettagli sparsi camminando insieme, anche in silenzio, nel luogo del tornado, significa creare un ponte che unisca passato e presente piuttosto che imboccare bivi. Ma di più: come per ognuno di noi che vuol cercare di vivere bene, il passato non può e non deve essere dimenticato, né annullato, se non prima essere stato ricordato.
Ogni cosa è illuminata, recita il titolo di uno splendido film di Liev Schreiber; ogni cosa della nostra storia, che si trova in noi, dev'essere illuminata; recuperata, significa darle un significato, per impedire che si trasformi, in seguito, in sintomo: angoscia, terrore senza nome, disadattamento.
A mio avviso, la narrazione è alla base della costruzione della famiglia adottiva, poiché, coinvolgendo sia il bambino che i genitori, li chiama nella costruzione di una condizione esperienziale, nuova e attuale, stavolta fatta da un presente che, raccogliendo il passato e ad esso raccordandosi, racconta anche (e soprattutto!) degli sforzi e dell'impegno di esserci, di essere insieme qui e ora, nel recupero delle reciprocità e nella quotidianità.
Perché questo possa accadere bisogna domandarsi:
Ma come arrivano genitori e bambini all'adozione? Una domanda che sembra retorica ma non lo è.
Se il bambino mostra segni del trauma relativo all'abbandono e all'istituzionalizzazione, alcune di queste molto severe, non trascuriamo il fatto che anche i genitori raggiungono l'adozione alla fine di altrettanti traumatismi assunti, poco alla volta ma inesorabilmente. Anche loro impegnati con l'esperienza dell'abbandono: dover abbandonare, e per sempre, la funzione, prima e la speranza, dopo, di procreare (condizione estremamente dolorosa che intacca, fino a destabilizzare, la compattezza del sé); a questo si aggiunge l'esperienza delle cure per la procreazione assistita, spesso un vero e proprio calvario, costoso, lungo e, in molti casi, improduttivo che mette a dura prova la coppia, provocando a sua volta un traumatismo di coppia, dove si possono sviluppare reazioni di rigetto fino all'allontanamento di uno dei partner e, quel che è peggio, anche in assenza di una separazione vera e propria; e, peggio di peggio, ottenere in queste condizioni emotive l'"abbinamento" (!).
Sarebbe importante ripensare l'adozione con nuove premesse che la sgancino dal peso di un passato indefettibile che allontana ed estremizza. Certo non è facile.
L'adozione, piuttosto comporta la costituzione di una nuova famiglia, una famiglia-altra, che vive una realtà-altra.
Perché ciò avvenga bisogna ricominciare daccapo, insieme, nella Verità, anzi utilizzare, senza nascondimenti ciò che è stato e che è, poi, proprio ciò che ha fatto incontrare genitori adottivi e bambini abbandonati. Quando cioè avviene il famoso "abbinamento" (mai termine è stato tanto infelice e, del resto, ben rappresenta la logica oscura che regola l'adottabilità: una lotteria?) si incontrano bambini e adulti già alle prese, e spesso non aiutati, con l'elaborazione del senso di morte, di disfacimento, che sanno bene cos'è la delusione, che stanno emotivamente facendo i conti col fallimento di quello che da sempre è ritenuto un fatto addirittura scontato: avere un figlio/avere dei genitori.
In questo senso l'adozione potrebbe avviarsi dall'incontro e dalla condivisione di storie, reciprocamente dolorose che (proprio per questo) inducono, difensivamente, alla negazione dei vissuti di perdita. Si verifica allora un "incantesimo" che trasforma persone in personaggi, e che impedisce di collocarsi (sia bambino che genitore) in una storia, nuova, vera e reale, ancora non scritta o che aspetta di essere scritta.
Quello che sembrerebbe un punto di debolezza potrebbe invece essere punto cardinale.
E' qui che la narrazione assume un effetto trasformativo.
E' muovendosi dal proprio dolore e dalla possibilità di poterlo, adesso, insieme, pensare che si può finalmente costruire la famiglia adottiva.
L'esperienza fatta a Messina durante la conduzione di un gruppo di genitori con figli adolescenti, mi ha fatto riflettere sul modo in cui l'adozione viene vissuta differentemente dalle famiglie nella considerazione di quanto detto.
Pur all'interno di situazioni anche molto affettive, alcuni genitori sembrano impegnati di più a sentire il ruolo e la responsabilità piuttosto che sentire emotivamente il figlio. Il più delle volte questa condizione provoca il formarsi di dinamiche familiari in cui s'impone il contrasto tra i membri impegnati, tra loro e col figlio, in una sorta di braccio di ferro per stabilire chi sia il capo branco più che affermare il primato della genitorialità.
Altre volte ho avuto l'impressione che ci fosse un atteggiamento mentale reciprocamente guardingo, di fiutarsi a vicenda; sia i genitori che i figli, indifferentemente, sembrano prendere le misure reciprocamente.
Sembra che, entrambi, siano abbastanza preoccupati, ad un livello meno cosciente, di tutelare e proteggere la propria individualità, la cosa che posseggono da sempre e alla quale, giustamente, non rinuncerebbero per nessun motivo soprattutto in circostanze nuove ed estranee laddove l'Altro viene vissuto come lo "straniero" (ancora Artoni, 2012), oggetto-sconosciuto che può appropriarsi, prendere possesso del proprio territorio, riducendo in minoranza gli altri del gruppo. Ma questo è un discorso che merita un buon approfondimento.
In altri casi, invece, si può apprezzare un clima reso lieve dalla capacità dei soggetti (genitori e figli) di giocare tra loro nel "nuovo" ordinario familiare in cui prevalga la curiosità delle reciproche culture, delle storie, delle abitudini, delle diversità caratteriali. In questo caso prevale lo stare insieme per conoscersi e per apprendere gli uni dagli altri.
Ho chiesto ad una madre adottiva che cosa l'avesse spinta ad adottare un bambino.
"Ad un certo punto della ma vita - risponde - ho sentito l'esigenza di condividere con un bambino quello che facevo durante la giornata; se mangiavo, se passeggiavo, se guardavo un film, avrei voluto farlo con un bambino accanto".
E' a partire dal piacere di condividere la vita, di realizzare un modo giocoso di stare insieme, o di contrastarsi con spontaneità, di soffermarsi in un ascolto reciproco e commosso dell'Altro che un gruppo di persone diventa famiglia.
L'esempio citato, per la sua semplicità e autenticità contiene quello che, aldilà dell'ovvio, ho voluto comunicarvi.
* Note
Il Compagno Adulto è una figura professionale nata negli anni '80 all'interno dell'Istituto di Neuropsichiatria Infantile "La Sapienza" di Roma; oggi è incluso tra le attività realizzate dall'Associazione Rifornimento in volo, sita a Roma in via Lucca 19.
Il Compagno di Riferimento, figura professionale ispirata al Compagno Adulto, è inclusa tra le attività dell'Associazione Felicità Interna Lorda, sorta a Messina nel 2013.
BIBLIOGRAFIA
Artoni Schlesinger C., Adozione e oltre, Borla, Roma, 2012
Bion W.R, Apprendere dall'esperienza, Armando Editore, 2009
Ferro A., La tecnica nella psicoanalisi infantile, Cortina, Milano, 1992
Pirandello L., Colloqui coi personaggi, Opere, vol III, I Meridiani, Mondadori, Milano, 1990
Winnicott D.W., Esplorazioni Psicoanalitiche, Raffaello Cortina, Milano, 1995
Roma