Autore: 
Simone Berti

Articolo pubblicato nella Rivista di Genitori si diventa "Adozione e dintorni" nel Maggio 2007

In un opuscolo distribuito dai sindacati medici francesi alle future madri si descriveva il padre bisognoso di educazione in questi termini “Talvolta gli capita di sentirsi un po’ sperduto in questo mondo di scarpette di lana e di biberon, sperduto e persino messo da parte. E’ vostro compito rassicurarlo, investirlo, senza che lui se ne accorga, della sua autorità paterna.”

Niente di simile capita al padre adottivo a parte la possibilità di sentirsi comunque un po’, e forse anche di più di un po’, sperduto. Difficilmente un padre adottivo vive come il padre biologico la sensazione iniziale dell’esclusione. Spesso il padre anche se non assente, se ne sta per lungo tempo da una parte, poco visibile e disponibile nel momento del bisogno. E’ la madre che introduce il padre, che lo presenta come padre al figlio, così come presenta il figlio, porgendolo, al padre e facendoglielo amare.

Il padre adottivo non può permettersi di starsene da una parte, tutt’altro, è proprio il rendersi conto di essere fin dall’inizio in prima linea sul fronte della genitorialità che gli darà la possibilità di vivere sia gli aspetti più gratificanti che un certo disorientamento.

La consapevolezza della sterilità di coppia

Chi si è imbattuto in un destino di sterilità individuale o di coppia il momento del lutto lo ha iniziato a vivere nel fallimento della trasmissione del proprio patrimonio genetico. Quella cellula germinale che non si vede neanche ad occhio nudo e che potrebbe sembrare irrilevante è ciò intorno al quale si incentra biologicamente e culturalmente la funzione procreatrice di un padre. Far giungere a destinazione una cellula di 70 millesimi di millimetro e farla fecondare. Vi sono specie animali nelle quali si sacrifica la propria vita per assicurarsi la certezza di questa trasmissione. E se anche non volessimo ritenerci assimilabili alle altre specie animali, sta di fatto che quella cellula si è rivelata inefficace o inutile: o non funzionava o non poteva essere accolta.

Comunque sia è una ferita inferta al proprio narcisismo, richiama l’essere finito e limitato dell’uomo. La sensazione di aver fallito nel proprio compito e il senso di colpa che ne può derivare invischierà per un certo tempo il cammino verso la paternità.

Così la donna spesso avrà una funzione trainante quando si tratterà di scegliere di intraprendere il percorso dell’adozione e lavorerà per far superare quelle resistenze e quelle diffidenze, a volte tenaci, che in un primo momento il compagno potrà portarsi dietro nel pensarsi come spazio di accoglienza svincolato dalla trasmissione del proprio patrimonio genetico. Resistenza che riguarda anche l’idea di doversi rimettere in discussione come figlio, come compagno e come futuro padre. La madre per lo più vi si butta di slancio ma senza aver la possibilità di calcolare la perdita e lo scarto che rappresenterà quel corpo che non la segue e che non accompagna questo accoglimento.

Inoltre un uomo si nasconde spesso il proprio desiderio di paternità. Lo nasconde dietro a quello sovente più urgente e più manifesto della propria donna. Ritiene di doverla accompagnare fino alla meta della maternità come se fosse un debito da assolvere ma anche come se questo accompagnamento fosse anche ciò che esaurisce il suo compito.

Avrà modo presto di ricredersi. Tutto il percorso di preparazione e di attesa lo vedrà costantemente in coppia al fianco della propria compagna. Certo può lasciarsi assorbire dagli aspetti pratici, dalla preparazione dei documenti, rifugiarsi nel partecipare leggendo, informandosi, tenendosi aggiornato. Ma l’adozione ha tanti tempi vuoti nell’attesa e la coppia ha così poco in mano per poter cominciare a pensare, immaginare, far vivere il proprio figlio e per prepararsi al momento dell’incontro. Così poco in mano che in quel momento la maggiore risorsa diventa la coppia stessa.

Padri e padri adottivi

La madre può subire in questa fase maggiormente lo scarto tra maternità biologica e adottiva. Un padre è per un verso sempre padre adottivo. Nella tradizione indoeuropea, prende il figlio sulle ginocchia dalla terra in cui è stato depositato una volta uscito dal ventre materno, lo eleva, gli conferisce il proprio nome, se ne assume la responsabilità. Decide di non “esporlo”, di non lasciarlo morire e questo indipendentemente dall’esistenza di un legame naturale, così come questo legame non lo vincolava al riconoscimento.

Per la cultura umana un genitore non è di per sé padre ma lo diventa nel passaggio dalla nascita al riconoscimento. Un genitore che non ha mai riconosciuto il figlio non è mai stato padre. La maternità passa sempre da un ventre che accoglie in un modo o in un altro.

Un destino di sterilità in cui possono rincorrersi e perdersi cause e responsabilità può essere vissuto in una donna come menomante la sua stessa identità. Una volta deciso il padre vive con una rinnovata tranquillità l’incontro con quel piccolo estraneo che riconosce e di cui se ne assume la responsabilità. Per certi versi, e solo sotto la preparazione di uno spazio materno di accoglienza, ora accompagnando la madre verso il figlio e il figlio verso la madre e viceversa, ora sottraendosi alla loro chiamata per lasciar spazio all’altro, per lasciar nascere e consolidare il loro legame.

L’incontro tra padre e figlio è un momento di profonda commozione che potrà continuare a vivere e a tessere e intrecciare quel legame che ancora non c’è. Lui impara a chiamarti papà, così gli hanno detto e tu lo chiami figlio, ma che significato hanno in quel momento quelle due parole. Come riempirle e non lasciarle vuote?

Un padre e suo figlio: amare la differenza

Intanto occorre imparare ad amare la differenza, quella differenza che vi attraversa necessariamente.

Un padre, una madre cercano per lo più la somiglianza nei tratti del figlio. Così succede che anche nell’adozione; spesso si ama sottolineare quegli aspetti per cui “nonostante tutto sembra proprio vostro figlio”, eppure così si rischia di perdere il sapore della diversità.

Quella diversità che emerge e si impone prepotentemente e che porta un padre ad osservare il proprio figlio cercando di capirlo come altro da sè. Ci sono tratti che non riconosce immediatamente in sé ma che conosce perché li ha osservati negli amici, nei conoscenti o anche in qualcuno che ha detestato. Sa che a quel suo figlio potranno dare qualche chance in meno ma anche delle carte in più.

E soprattutto crede che forse potrà aiutarlo proprio perché non potrà darlo mai per scontato questo figlio. A volte è proprio con il padre che si crea il legame originario più forte. Genitore può cominciare ad esserlo colui che per esempio ci protegge o ci difende da situazioni di pericolo e in questo la figura paterna può imporsi maggiormente e dare maggiori rassicurazioni.

Ci sono molte cose che un padre adottivo deve rivedere, molte certezze da mettere in discussione (d’altronde da dove vengono sempre le nostre certezze?)

Nell’adozione non abbiamo avuto il momento in cui il genitore - e qui in modo decisamente preponderante la madre - ha avuto pressoché un legame assoluto, un dominio illimitato nei confronti del figlio. E si sta parlando del potere più grande che un essere umano possa avere su un suo simile.

Tutto è più brusco, immediato, privo di gradualità, c’è una lunga attesa ma una breve e incompleta preparazione all’impatto (e spesso che impatto!) con il diventare genitore.

Dovremo imparare che avere i titoli legali non equivale a poterli far valere. L’autorità paterna per esempio che vi è sembrata nella vostra storia così scomoda ma così naturale e assoluta, vive con i vostri figli di un labile equilibrio e di un’abile dosaggio che la crea via via nella crescita della fiducia e nel rafforzamento del rapporto.

Certo con un po’ di invidia vedrete i vostri simili che con un semplice richiamo, alzando un po’ la voce o facendo avvertire un tono leggermente più minaccioso riportano il proprio figlio all’ordine. Per voi invece tutto può essere amplificato, eccessivo, smodato, dal capriccio alla carezza, dalla coccola alla manifestazione di rabbia.

Ci sarà spesso un tratto di differenza con gli altri e a volte la cosa potrà prendervi come struggente nostalgia di normalità.

Anche le vostre certezze matematiche dovranno essere riviste perché sette può essere sette, ma più spesso sei, cinque e a volte due o tre e così dovrete costantemente fare i conti con un’età di vostro figlio che non è mai soltanto quella ma spesso a un tempo quella e un’altra.

Per chiudere rubo a uno scritto di Giuliana Bertelloni la dedica che Silvana De Mari ha apposto al suo libro "L’ultimo elfo", dedica che può dirci molto di più sulla paternità di tante nostre meditate riflessioni: <<A mio padre che mi ha indicato la strada anche se poi ha perso la sua>>.

Data di pubblicazione: 
Domenica, Luglio 23, 2017

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