Autore: 
Anna Guerrieri e Monica Nobile

Come ascoltare i bambini adottati

Iniziamo con un capovolgimento immediato di prospettiva trasformando il titolo proposto da "Raccontare l'adozione a scuola" in "Ascoltare l'adozione a scuola". Come sottotitolo si potrebbe aggiungere: "Le emozioni che si provano in classe accogliendo i bambini e i ragazzi adottati e le loro storie". Infatti, molto più spesso di quanto si immagini, sono i bambini a parlare di sé, del proprio essere “adottati”. Accade all'improvviso, per un'associazione mentale, per una catena di suggestioni che portano ad un ricordo lontano o ad un pensiero su di sé. Accade anche perché i bambini che vengono adottati internazionalmente sono sempre più grandi, hanno ricordi netti e precisi. L'adozione, d'altra parte, non è un accadimento della vita che una volta passato si posiziona nel tempo come qualcosa con cui si ha avuto a che fare e con cui si sono regolati i conti. Essere adottati è una condizione esistenziale. In quanto tale il racconto di sé è uno dei modi fondanti in cui ci si dà ragione del proprio essere e si costruisce la propria interiorità. Per questo i bambini e le bambine informati dell'essere adottivi o semplicemente consapevoli di esserlo, parlano spesso e volentieri di aspetti della propria vita squisitamente pertinenti all'adozione, che si tratti di ricordi di un prima vissuto anche solo per pochi anni, che si tratti di supposizioni o desideri su qualcosa di cui non si sa razionalmente nulla, che si tratti di un riferimento esplicito al fatto di aver subito un abbandono/distacco dalla famiglia di origine.

“Io però non ho preso il latte da mia madre”,

“Io mi ricordo com'era”,

“Io una volta facevo così e così”,

“Mi hanno portato lì e poi non sono tornati perché hanno perso la strada”, “

Quando ho conosciuto mia mamma...”. 

Queste sono tutte frasi vere. Inizi di racconti... Talvolta non si tratta neanche di racconti veri e propri, bensì di “testimonianze” implicite: il colore della pelle (dal diafano all'ebano), i tratti somatici, il nome, dei segni fisici, un'età non corrispondente a quella della classe, ecc.

Sempre di più, ad esempio, sono i bambini che arrivano in Italia in età scolare per i quali l'inserimento scolastico si attua dovendo affrontare la criticità della discrepanza tra quello che la legge vorrebbe e le necessità reali dei bambini (Nota dell'editore: Attualmente, grazie alle Linee di dinidirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati, è permesso un ingresso scolastico più a misura di bambino di quanto non fosse permesso quando questo articolo venne scritto). Un bambino di nove o dieci anni inserito in seconda elementare racconta la propria adozione praticamente ogni volta che dice la propria età. Il punto, dunque, in classe non può e non deve essere “Come raccontare l'adozione” quanto piuttosto “Come ascoltare quello che i bambini e le bambine adottati ci raccontano” e “Come trovare il modo (verbale, fisico, emotivo) per creare in classe il clima giusto” affinché l'essenza di questi racconti di vita possano portare benessere al bambino che racconta e a tutta la classe, nonostante la loro criticità.

Perché di criticità si tratta, quando si parla di adozione. Inevitabilmente. Infatti dietro ad ogni adozione c'è sempre un abbandono, un disagio, un malessere, un male che hanno fatto  si  che  dei   bambini   rimanessero  soli, in balia prima di adulti che non potevano/volevano/erano capaci di proteggerli e crescerli, poi di uno Stato che ha deciso il loro percorso successivo attraverso istituti e comunità ed infine la loro l'adozione (nazionale o internazionale). Sono spesso arrivati alle loro famiglie adottive senza essere consapevoli di quanto accadeva loro. Con il carico di una vita che erano costretti a cambiare drasticamente, totalmente, per sopravvivere e trovare una possibilità di crescita. L'adozione coniuga, come ogni grande cosa della vita, un grande dolore, un grande male e la possibilità di un grande bene. Ogni testimonianza ad essa collegata porta con se entrambi questi aspetti.

Racconto e curiosità, risposte adeguate

Un bambino che racconti di essere adottato in classe, inevitabilmente si sentirà chiedere dove siano ora i genitori che lo hanno fatto nascere. La curiosità sulle sue origini è naturale:

“Chi erano? Li conoscevi? Come erano? Perché ti hanno lasciato?”

Tutte domande spontanee ed ovvie che hanno a che fare col fatto che per essere adottati si è prima stati abbandonati. Tratti somatici diversi da quelli dei propri genitori suscitano lo stesso treno di pensieri: “Se, tu che sei così diverso, ora sei qui, è perché non potevi stare lì. Ed è importante che io ne sappia i motivi. E mi preoccupo di quei motivi perché mi chiedo se non possa capitare anche a me.” Queste frasi non sono frasi di bambini. O meglio, queste non sono le esatte parole che usano, ma sono tutti pensieri che sono emersi in tanti compagni di classe di bambini adottati. Sono pensieri naturali a cui, noi adulti, spesso ci sentiamo chiamati a dare una risposta. Ed è esattamente nel tentativo di dare risposte che ci si scontra con la difficoltà  dei significati delle parole.

Cosa significa “madre” e cosa significa “padre” ad esempio? In ogni figlio adottivo c’è un “ prima” e un “dopo” e tra questi il ponte è l’adozione. Quando si fa nascere e soprattutto quando si accoglie, si ama, si cura un bambino e lo si accompagna verso l’età adulta si è sempre genitori, senza aggettivi ulteriori (“veri”, “di sangue”, “adottivi”). Per i bambini adottati ci sono stati dei “genitori di prima ” che ora non ci sono più per motivi certamente gravissimi ma tutti legati al complicato mondo degli adulti; sono comunque le radici , le origini , hanno donato il proprio codice genetico. Sono stati genitori un tempo, ora i bambini hanno altri genitori che gli sono accanto. Queste sono le parole che possono aiutare un’insegnante a rispondere alle legittime domande una volta che emerga il tema dell’adozione e dell’abbandono in classe.

E' bene dunque che, in modo molto sincero, gli insegnanti che abbiano a che fare con alunni adottati, si fermino a pensare cosa susciti in loro stessi la parola “adozione”. Per ascoltarne, si ha bisogno di indagare l'eco che tale parola evoca, perché poi le cose possono capitare all'improvviso e da un momento all'altro durante una lezione di Geografia (quando si tratta dei paesi di nascita dei bambini e ci si trova ad enfatizzarne ad esempio aspetti di povertà economica), durante una lezione di Storia (perché anche i paesi hanno un passato che evoca cortocircuiti mentali), durante una lezione di Scienze (quando si parla di genetica) o anche semplicemente in seconda elementare quando si inizia a costruire il processo di storicizzazione degli eventi e il libro di testo chiede ai bambini di raccogliere “documentazione” che riguardi la loro nascita (“Come è stato scelto il tuo nome?” “Chiedi ai nonni di raccontarti quando eri piccolo”, “Quando hai iniziato a camminare?”, “Porta una foto di te neonato”).

L’insegnante che ha a che fare con gli alunni adottati è spesso sommerso dai sentimenti e può attivare, anche inconsapevolmente, due meccanismi contrapposti:

- forte coinvolgimento emotivo

- oppure allontanamento e distacco.

Per rendere concreto quanto diciamo basti pensare da una parte all'insegnante che prova intensa tenerezza nei confronti del suo alunno, che lo prende sempre in braccio, che lo premia con caramelle e razioni extra, che percepisce i genitori adottivi come troppo duri, freddi, distaccati, quasi come dei genitori un po' inadeguati, inadatti a quel bambino. E dall'altra all'insegnante che non percepisce alcuna differenza tra il bambino adottato e gli altri bambini perché: i bambini sono tutti bambini, l'adozione è una fortuna e il passato è passato, ecc.

E' in questo secondo caso che si arriva a dimenticare cose ovvie, come al fatto che certe storie o progetti possano toccare corde profonde nei bambini che si hanno davanti. Immaginiamo una storia come quella di Hansel e Gretel consegnata ad un bambino piccolo che abbia vissuto dal vero un abbandono in un “bosco”, o pensiamo ad un progetto sulla nascita con disegni di mamme col pancione e cullette realizzato in una scuola dell'infanzia con bambini adottati (che essi siano arrivati da un mese o da tanto). Non è tanto notevole che simili “sviste” possano capitare, quanto il fatto che poi ci si stupisca di aver toccato temi sensibili. Si pensa spesso al bambino adottato come ad un bambino che inizia la sua vita “da capo” una volta che arriva nella sua nuova famiglia. Come se un colpo di spugna potesse cancellare via tutto. E sovente si parla di “seconda nascita”.

Tuttavia, sebbene l'adozione sia davvero la nascita di una famiglia, è necessario non spingere così oltre il pensiero da arrivare a “dimenticare” la prima reale e concreta nascita del bambino o della bambina adottati. Ognuno di noi nasce alla vita una volta sola (e poi nella vita si trasforma e vive attraverso infiniti mutamenti che solo metaforicamente possono essere chiamati “nascite”). Dimenticare la nascita biologica dei bambini adottati ammonterebbe a svalutarne il passato. Nel bambino adottato c'è sempre un “prima” denso di significati e tracce. 

E' proprio questo che rende l'adozione un atto vitale e pieno di meraviglia: la capacità di cucire assieme la realtà di un passato con una potenzialità di futuro, senza negare nulla nel percorso.

I bambini e il dolore

Si tratta di un passaggio che spesso avviene anche attraverso il dolore. Primo fra tutti il dolore del bambino che subisce l'abbandono (che avvenga alla nascita o tanto tempo dopo di dolore si tratta). Di assenza. Di lutto. Di capovolgimento. Di rischio mortale per il bambino o la bambina che lo subiscono.

Per questo pensare l'abbandono è difficilissimo, lo rifiutiamo, ci fa orrore e ci spalanca un vuoto dentro. Ed è il motivo per cui tante volte dei bambini adottati si sente dire: “Ancora questi pensieri sulla mamma di prima? Ma è stato adottato tanto tempo fa”. Come se l'adozione fosse una tale “fortuna” da poter cancellare il dato di fatto che si tratti invece di una “necessità” messa in atto per salvare la vita di un bambino. L'adozione è l'ultima risorsa per i bambini. Accade dove nessun altro progetto di recupero della famiglia di origine (anche allargata) abbia funzionato. Si teme anche che nominare l'abbandono possa “spaventare” i compagni di classe del bambino adottato, dove invece spesso la paura nasce dal non riuscire a nominare i fatti della vita. Forse aiuterebbe ricordare che il dolore è un talento, chi lo ha vissuto può avere una marcia in più nella comprensione delle cose della vita, nella lettura dei fatti. In questo senso i bambini adottati sono speciali e nel loro essere speciali, potrebbero essere valorizzati, potrebbero trovare con l’aiuto dell’adulto che gli sta accanto la carta in più da giocarsi anche in termini di rendimento scolastico. In un processo di apprendimento/insegnamento che si fa creativo, non stereotipato, aperto a nuovi codici.

Le strade per l'insegnante

Insegnare significa lasciare il segno.

Mentre si insegna si crea una relazione, con la classe e con ogni singolo alunno e alunna. Mentre si insegna si inseguono anche i propri sogni, i propri desideri, si tesse un dialogo che ha a che fare con la costruzione di una vita vivibile, un mondo migliore. Mentre si insegna, si ascolta quello che i bambini raccontano e dicono di sé. E’ un atto che, nel caso di tanti bambini, non solo adottivi, deve partire dalla consapevolezza della realtà del bambino che si ha davanti, anche delle sue ferite. Per questo il clima di collaborazione e di reciproca comprensione tra famiglie e insegnanti è fondamentale e nella costruzione della relazione tra scuola e famiglia è importante ricordare che il dialogo costruttivo si fonda sulla sospensione del giudizio. Il rapporto emotivo richiede che l’insegnante sappia relazionarsi oltre che con il genitore con le proprie reazioni emotive, le proprie incertezze e forse anche con le proprie paure: Paura delle critiche, dell’ostilità, di perdere il controllo, della sofferenza.

Proprio per questo sarebbe importante che la scuola riuscisse a creare uno spazio di pensiero sul concetto di famiglia, allargandolo alle famiglie speciali quali sono quelle adottive. Sarebbe importante che, a scuola, si potesse pensare alla famiglia come mondo del bambino, un mondo variegato, eterogeneo, sfaccettato. Così facendo ci si preparerebbe, nel tempo, all’interno di un percorso di riflessione su se stessi e sulla realtà circostante, all’accoglienza del bambino adottato (e non solo). Riflettere, pensare, assumerebbe il significato di creare spazio per ciascun bambino, per ciascuna famiglia, per storie spesso complesse e difficili quali sono quelle adottive.

L’insegnante che allarga l’orizzonte e il pensiero può comprendere, può capire, può ascoltare senza giudicare. In questo tipo di relazione dove l’uno è disponibile all’ascolto empatico e l’altro è disposto a raccontarsi con fiducia si può costruire un’alleanza tra scuola e famiglia che sia solida base di crescita per il bambino adottato accolto in classe.

In questo senso c'è un importante aspetto che non va dimenticato nel rapporto tra la scuola e la famiglia adottiva: il diritto di cittadinanza della famiglia stessa. Il genitore adottivo ha dovuto superare nella maggioranza dei casi il dolore del “non procreare”. Non solo, ha dovuto esporsi al giudizio dei servizi sociali e del Tribunale per ottenere quella che si definisce “idoneità” e che risuona in modo forte, talvolta inquietante. All’inizio il genitore adottivo fa fatica a sentirsi davvero genitore, è sempre un po’ in prova, è ancora al centro dell’attenzione, ancora attento a “far bene”. Deve poter essere accolto e aiutato dalla scuola, sentirsi rilassato, sentire che il giudizio è sospeso e che ciò che deciderà di fare, la maestra in accordo con la mamma, sarà qualcosa che serve ad aiutare e a sostenere il bambino.

Insomma, l’adozione a scuola ha a che fare con l’accoglienza, del bambino, della sua famiglia, del dolore, del provare e riprovare, in buon a fede, dove nessuno degli attori può sentire di avere delle verità in tasca.

E' però anche grazie a questa alleanza tra adulti che in classe può crearsi il clima giusto. Quello che permette di ascoltare. Senza stupirsi. Senza preoccuparsi eccessivamente. Per potersi raccontare, infatti, bisogna avere la fiducia che dall'altra parte ci sia qualcuno che sappia ascoltare senza negare quel che diciamo. Che sappia che quelle parole che usiamo non sono impensabili, ma parte della naturalezza delle cose. Non possiamo dirci se quel che diciamo suscita pena, paura o peggio ancora rifiuto. La reazione di chi ci è accanto ha il potere di trasformarci da testimone prezioso di una realtà complessa e variegata, a vittima inerme e passiva, a persona da cui tenersi lontano. Per questo “prevedere” l'adozione ha il senso di creare lo spazio per un ascolto futuro.

Se dunque citare l'adozione in classe significa fare i conti con quello che la rende necessaria e inevitabile, ossia l'abbandono, abbiamo il dovere di fare chiarezza su questo argomento. Sono tanti i motivi dell'abbandono, sono complessi e sono tutti motivi di adulti, che non c'entrano niente con la realtà dei piccoli. In classe è necessario, piuttosto che avventurarsi in spiegazioni palliative , dare ascolto ai bambini e alle loro preoccupazioni. Troppe volte abbiamo visto gli effetti di spiegazioni affrettate sull'abbandono legate alla povertà, alla morte, alle calamità. Spiegazioni che hanno innescato scenari preoccupati nelle menti dei bambini stessi (“Allora se i miei diventano poveri, mi abbandonano?”) o che hanno messo il bambino adottato in una sorta di gabbia da cui era difficile uscire (“I tuoi genitori veri erano poveri, e i tuoi genitori adottivi ti hanno portato via”).

Non si tratta mai di dover "fare lezioni" sull'adozione e sull'abbandono, per un insegnante è molto più importante "sapere" che "dire", e sapere in questo caso significa rispettare il passato del bambino adottato,  comprendere che non è solamente identificato con la famiglia adottiva, che in lui c'è la presenza anche della famiglia di origine.

Nei percorsi che Genitori si diventa ha creato per la scuola, sempre le insegnanti hanno parlato delle loro sensazioni per quel che i loro alunni raccontavano in classe. Sempre, quando si arrivava all'abbandono e le sue conseguenze, i racconti emersi in classe creavano angoscia negli adulti che ascoltavano, la percezione di non saper come aiutare i bambini, sia i bambini che raccontavano sia i loro compagni.

Cosa scatena avere davanti a sé un bambino abbandonato? A cosa richiama la storia di cui il bambino adottato è portatore?

Forse in molti insegnanti suscita dolore. Pensiamoci, come se la può cavare in fondo una maestra, dovendo pensare alla maternità, non più nei termini talvolta fin troppo zuccherosi a cui siamo abituati, ma invece come esperienza che si è conclusa con l'abbandono di un figlio? Di fatto il bambino adottato racconta di una madre che ha abbandonato e per questo contraddice gran parte delle “storie” riportate volentieri ai bambini, in cui i genitori sono sempre attenti, buoni e capaci. La realtà non è così però, e non solo per i bambini che subiscono un abbandono. I genitori spesso “sbagliano” il più delle volte in buona fede, talvolta terribilmente. Si potrebbe pensare a questa chiave di lettura. E provare a percorrere l'ipotesi che davanti al mare di sofferenza che un bambino adottato porta dentro di sé, l'adulto inneschi troppo spesso meccanismi di difesa, percepisca il dolore, non possa o non voglia riconoscerlo, e lo elimini. Dimenticando e rispondendo a quel dolore facendo finta di niente. Annullando una specificità così ingombrante e finendo per non tener conto dei propri sentimenti prima, e di quelli del bambino subito dopo.

Concludiamo la nostra riflessione riportando “L’arte di ascoltare in sette regole” tratta da “L’arte di ascoltare e i mondi possibili” di Marianella Sclavi:

1.     Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca.

2.     Quel che vedi dipende dalla prospettiva in cui ti trovi. Per riuscire a vedere la tua prospettiva, devi cambiare prospettiva.

3.     Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a capire come e perché.

4.     Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.

5.     Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti perché incongruenti con le proprie certezze.

6.     Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e  della comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.

7.    Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica.Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé.

 

Bibliografia

Luisa Alloero, Marisa Pavone e Aura Rosati, Siamo tutti figli adottivi, Edizioni Rosemberg – Sellier, Torino, 1991

Francesco Berto, I bambini vanno a scuola. Trepidazioni, attese, paure. Come aiutare i figli a vivere questa esperienza?, Armando Editore, Roma, 1997

Francesco Berto e Paola Scalari, Sostenere la genitorialità, articolo in Animazione Sociale n° 6/7/2001, Gruppo Abele Periodici, Torino, 2002

T. Berry Brazelton, Stanley I. Greenspan, I bisogni irrinunciabili dei bambini. Ciò che un bambino deve avere per crescere e imparare. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000

Massimo Buscaglioni, «Adultità», , p. 33, ottobre 1995

M. Chistolini, Scuola e adozione, Edizioni Franco Angeli, Milano, 2006

Orlando Cian D. e Paola Milani, Nidi e scuole dell’infanzia come luoghi di formazione dei genitori, «Studium Educationis» n. 2, p. 501-517, 2001

AA VV Bambini di carta bambini di carne Cifa Onlus

Commissione Adozioni Internazionali e Istituto degli Innocenti - L’inserimento scolastico dei minori stranieri adottati – Collana “Studi e Ricerche”

Duccio Demetrio, Metodo autobiografico – famiglie che si raccontano, articolo in Strumenti a cura di Antonio Fatigati , Genitori si diventa , Franco Angeli Editore, Milano, 2005.

Thomas Gordon, Genitori efficaci. Educare figli responsabili. La Meridiana, 1994

Thomas Gordon, Insegnati Efficaci, La Meridiana

John Gottman, Intelligenza Emotiva per un figlio, Rizzoli

Anna Guerrieri, Maria Linda Odorisio, Oggi a scuola è arrivato un nuovo amico, Armando Editore, Roma, 2003

Anna Guerrieri, Maria Linda Odorisio, A scuola di Adozione, ETS, 2006

Vanna Iori, Ripartire dalla Famiglia, articolo in Strumenti Osservatorio Permanente sulle Famiglie del Comune di Reggio Emilia, n° 3, 1998

Margherita Lanz, Elena Marta, Cognizioni sociali e relazioni familiari, Milano, Franco Angeli, 2000

Marianella Sclavi, L’arte di ascoltare e i mondi possibili, Mondadori

Anna Oliviero Ferraris Il cammino dell’adozione, Rizzoli

Domenico Simeone, La consulenza educativa. Dimensione pedagogica della relazione di aiuto, Vita e pensiero, Milano, 2000

Graziella Fava Viziello, L’eccezione e la regola, Torino, Bollati Boringhieri, 1994

 

Data di pubblicazione: 
Mercoledì, Ottobre 11, 2017

Condividi questo articolo

Articoli sull'argomento

Daniela Lupo, mamma e insegnante
Sonia Oppici, psicologa giuridica e psicodiagnosta
Anna Guerrieri, Fabio Antonelli
Redazione di Genitori si diventa OdV
Antonella Avanzini
Franca Storace, Annapaola Capuano