Episodi di razzismo verso giovani adottati di origini straniere. Un fenomeno nuovo? Riflessioni per un intervento educativo interculturale.
Come sta evolvendo questo fenomeno presente da sempre (e troppo sottovalutato)? E soprattutto, come lo si può affrontare?
Partiamo dall’attualità.
Balzano - purtroppo - all’attenzione attraverso notizie e testimonianze pubblicate sui social media, nelle testate giornalistiche online o raccontate in trasmissioni televisive di vario tipo, le preoccupanti e preoccupate denunce che riportano episodi definiti di “razzismo pesante” subiti da figlie e figli di origine straniera e dalla pelle scura. L’elenco può essere facilmente estratto dai media.
Per comprendere la portata storica di questo fenomeno veniamo, ora, ad alcuni dati di ricerche che ho svolto a partire dagli anni 1999/2000, poi nel 2011, nel 2015 e a tutt’oggi. Sono emblematici gli esempi che emergono dalle testimonianze raccolte in interviste individuali rivolte a giovani adottate/i in Italia e di differenti origini extraeuropee (Lorenzini, 2012; 2013, 2018). Gran parte delle/dei giovani, con pelle più o meno scura, intervistati in età compresa tra 18 e 34 anni, testimonia episodi vissuti in cui sono stati appellati con parole dispregiative: “sporca negra”, “negro fottuto”, “negro di merda”. È estremamente spiacevole trascrivere, leggere, udire queste parole e possiamo immaginare quanto lo sia per coloro che sono diretti bersagli delle medesime. Ma, credo che occorra non perdere l’occasione per chiamare le cose con il loro nome, sentirne il peso, l’imbarazzo, la spiacevolezza con la propria sensibilità, in modo non fine a se stesso, ma volto a una presa in carico in termini di consapevolezza, indignazione, intervento educativo in prospettiva interculturale, antirazzista, ma anche antisessista (Lorenzini, 2018).
Interviste e testimonianze
Questi giovani raccontano numerosi episodi in cui sono stati fermati da pattuglie di polizia che chiedono loro il permesso di soggiorno e non la carta d’identità, guardati con sospetto come fossero sul punto di rubare un motorino o una borsa, approcciati in un italiano lento e scandito che dà per scontato che non conoscano la lingua; rifiutati nella richiesta di locazione di un appartamento per studenti. E, ancora, in particolare per le giovani donne (la dimensione di genere che scatena sessismo è qui centrale) l’essere identificate come colf, come mogli di italiani per interesse economico, come prostitute. I luoghi pubblici, esterni all’ambiente familiare e amicale, risultano particolarmente a rischio e gli intervistati menzionano vari tipi di soggetti ostili incontrati in contesti diversi: sconosciuti incrociati per strada, sull’autobus, in treno, alla guida della propria auto, in luoghi pubblici quali discoteca, negozi, bar, stazione ferroviaria; adulti, coetanei, anziani, ragazzi, ragazzini vicini di casa, compagni della squadra di calcio, compagni di scuola (Lorenzini 2013, 2018).
Purtroppo non mancano nemmeno esempi di ostilità di questo tipo all’interno della famiglia stessa. Tra i tanti possibili, riporto qui alcuni esempi di cui ho già parlato in diverse altre mie pubblicazioni. Dice una giovane di origine indiana, arrivata in Italia nella famiglia adottiva a 5 anni e intervistata all’età di 24, nel 2000:
Quando andavo in discoteca il sabato pomeriggio c’erano i fascisti [si riferisce alla seconda metà degli anni novanta]. Il ragazzo di una mia amica diceva che non voleva uscire con me, perché ero nera e lui era un fascista…, tutto era in riferimento alla mia carnagione. Capita spesso, quando ci sono le elezioni poi… perché uno degli scopi è abbassare il tasso dell’immigrazione, quindi tutti a dire “Ah…! Arrivano gli extracomunitari”. Spesso, capita che i poliziotti mi chiedano il permesso di soggiorno, io non c’è l’ho e allora vogliono portarmi in Questura: “Ma io ho la carta di identità!” Allora iniziano a guardarti a controllarti, come se io l’avessi rubata. O quando mi hanno rubato la borsa e ho dovuto rifare la patente hanno questionato perché, capita spesso, avendo la cittadinanza italiana, ma essendo nata all’estero, avevano paura che l’avessi venduta o non so che cavolo avrei dovuto farci con la patente. Va beh, poi una marea… però anche se gli altri non sono razzisti non c’è un cane che si alza per difenderti, i miei amici sì, sempre. Una volta ero sul pullman e uno mi fa: “Fammi sedere”. Era un uomo di circa 30 anni, il pullman strapieno di gente, io gli dissi: “Ho pagato il biglietto, ho il diritto di sedermi”, ho continuato a leggere il mio libro, girandomi dall’altra parte e ha iniziato a dire: “Che puzza, ma almeno lavati”. Lui sicuramente puzzava più di me. Allora ha iniziato a fare: “Quando ti alzi rimarrà tutta la sedia sporca”. Allora ci badi perché senti che sta parlando di te, però, la cosa non mi dà fastidio più di tanto. Sotto elezioni capita spessissimo, magari tirano avanti per tre settimane, arrivi a un punto che non ce la fai più ed esplodi: “Ma che cazzo vuoi?” (f, India, 5 anni, anno di realizzazione dell’intervista: 2000) (Lorenzini, 2013, p. 177; 2018).
E basterebbe già la “marea” di episodi raccontati da questa intervistata, ma l’elenco potrebbe continuare a lungo (rimando a Lorenzini, 2013 e 2018).
Nelle parole di una giovane di origine colombiana, arrivata in Italia all’età di 3 anni e intervistata a 24, nel 2011, si colgono, con ancor più nitida evidenza, le plurali forme di aggressione subite in età e luoghi diversi dopo l’adozione, in quanto femmina/bambina e di pelle scura:
I problemi più grandi alle elementari, a 8 anni avevo il ciclo [mestruale], ero già prosperosa e questo ha influito con le bimbe, io ero più donna rispetto a loro, e con i maschi ho avuto problemi perché ero diversa dalle altre e allora c’era la derisione: un po’ toccavano sotto la gonna, un po’ mi chiamavano “Negretta, negra” e così. Stessi problemi li ho avuti alle superiori nel mio paese [nord Italia]. Una volta [è successa] una cosa molto brutta, [dopo la quale] sono rimasta chiusa in casa tre giorni: ero uscita a portare a spasso il cane e di fronte alla chiesa stavano giocando dei ragazzi che hanno urlato dalla parte opposta “Sporca negra, tornatene al tuo paese, noi qui non ti vogliamo”, le classiche frasi fatte. Io ci rimasi molto male, avrò avuto 13 anni [episodio verificatosi nel 2000], mi sono chiusa in casa tre giorni piangendo disperata […]. Io ho messo una corazza abbastanza dura, quindi, ora mi scivolano abbastanza addosso. Però gli altri quando eravamo sull’autobus, sai le commedie americane quando ti sfottono? Uguale. Io da quel tempo lì, sempre seduta davanti con la musica nelle orecchie […]. “Negretta” non mi dava fastidio, ma “Negra di merda, vattene via!” urlato in mezzo alla strada è un colpo al cuore. Io ero abituata ad andare al bar a comprarmi il gelato, per molto tempo non l’ho più fatto (f, Colombia, 3 anni, anno di realizzazione dell’intervista: 2011) (Lorenzini, 2013, p. 156; 2018).
Ancora una giovane di origine indiana, arrivata nella famiglia adottiva all’età di 5 anni, residente nel nord Italia in località turistica, e intervistata all’età di 27, nel 2011:
Quando, ad esempio, un turista mi ferma, mi fa capire che vuole portarmi in albergo con lui e vuole sapere il prezzo, io lo caccio in malo modo e tornata a casa racconto a mia madre l’accaduto. Una volta tornata a casa, loro non davano importanza al fatto e, per evitare di starci più male, ho smesso di raccontare episodi sgradevoli, cercavo solo di dimenticarli. Lei mi risponde semplicemente: “Che vuoi che sia, non è successo niente di grave!”, anche se io sto per piangere. E mio padre rincara la dose: “Il peggio deve ancora venire, se continui a ingigantire queste sciocchezze ineliminabili dal contesto sociale, ti verrà la mania di persecuzione”. Il minimo è sentirmi incompresa emotivamente (f, India, 5 anni, anno di realizzazione dell’intervista: 2011) (Lorenzini, 2013, p. 177; 2018).
Diversi intervistati riconducono al contesto scolastico le esperienze definite come particolarmente dolorose, perché avvenute davanti agli amici, in età precoce in cui è più difficile capire, rispondere, rielaborare. Si tratta di esperienze che vanno dalla derisione, all’insulto, al rifiuto, in qualche caso a comportamenti definibili come persecutori. Vediamo le parole di un giovane di origine colombiana, arrivato a 11 anni e intervistato nel 2000:
Per la diversità di pelle. Un compagno di scuola, quando si andava in bagno non mi faceva entrare perché diceva che avevo la pelle diversa, è stato l’unico con cui io sono arrivato alle mani…, rischiando anche di essere buttato fuori perché l’ho conciato piuttosto male, però lui l’aveva portato a un limite estremo. Io non ce la facevo più e ho esploso tutto quello che avevo dentro (37 m, Colombia, 11 anni, anno di realizzazione dell’intervista: 2000) (Lorenzini, 2013, p. 158; 2018);
e di un altro nato in Madagascar, arrivato a 3 mesi e intervistato nel 2011 che racconta un episodio analogo:
«Una volta alle elementari mi hanno detto “Vu cumprà”, ho mandato il ragazzino in ospedale» (5 m, Madagascar, 3 mesi, anno di realizzazione dell’intervista: 2011) (Lorenzini, 2013, p. 159; 2018).
Riporto ancora la testimonianza di una giovane di origine colombiana arrivata a 10 mesi e intervistata a 27 anni, nel 2015, che, con difficoltà, racconta diversi episodi di cui è stata vittima:
No… non mi è mai capitato… niente di che… beh… un ragazzo in discoteca una volta, forse era anche brillo, mi ha detto “ma te sei una negra”… e un altro, che era il fidanzato di una mia amica, su una chat mi ha chiamato negra… la mia amica poi gli ha subito detto “non ti devi permettere…!”… Un’altra volta fuori dalla scuola uno mi ha gridato “sei una negra di merda” e lì mi hanno fermato perché io volevo proprio saltargli addosso. E mia madre tornata a casa “ma pazienza non ti ha mica detto niente di che…” il ragazzo che era il figlio di una vicina poi si è scusato cinquantamila volte con messaggi sul cellulare e io “eh sì, ma devi pensarci prima a quello che dici”. Intervistatrice: Ma allora ci sono stati diversi episodi, perché dici che non sono gravi? Ma… sono cose che… ti vanno giù piano piano, mi fanno male più quelle che si dicono in famiglia, quando stiamo litigando e mia sorella mi dice “stai zitta negra di merda!” e mia madre “beh tu le hai detto stronza”, ma non è uguale… (3 f, Colombia, 10 mesi, anno di realizzazione dell’intervista: 2015) (Lorenzini, 2018).
In un itinerario che possiamo considerare senza soluzione di continuità episodi di discriminazione e razzismo hanno riguardato giovani adottati dai tratti somatici, e soprattutto colore della pelle, differenti da quelli ancora prevalenti nel contesto sociale di accoglienza, non solo negli ultimi mesi ma negli ultimi decenni. Va precisato che la diffusa presenza di striscianti e talora eclatanti forme di discriminazione suscitate da queste caratteristiche, si scopre e riscopre nelle ricerche e testimonianze che coinvolgono soggetti che portano in sé queste peculiarità visibilmente riconducibili a un’origine straniera.
Che si tratti di persone migranti di diverse origini e dei loro figli, alunni nei diversi gradi scolastici, di giovani adottati internazionalmente di differenti origini straniere, di minori stranieri non accompagnati, di giovani delle cosiddette seconde generazioni, di figli di coppie miste, quando cioè si tratta di soggetti accomunati dall’avere pelle scura e/o essere di sesso femminile, per uno di questi aspetti, per l’altro o per entrambi insieme, emergono forme di discriminazione legate a queste peculiarità.
Attualità
Tornando all’oggi, notizie relative a episodi di razzismo nel nostro paese riempiono le cronache e si susseguono in maniera pericolosa e preoccupante. Solo tra le più recenti:
- 21 gennaio, Trepuzzi (Salento), un giovane originario del Sierra Leone viene minacciato da un gruppo di ragazzi, mentre si trova nella sua casa, al grido di “bastardo di un negro! Vai via negro… questa non è casa tua… vattene in Africa”; Napoli, 31 gennaio 2019, un giovane ivoriano in Italia da 10 anni, viene inseguito e quasi investito da 4 uomini armati di bastoni, spranghe e sassi al grido di “schifo di uomo, munnezza. Vogliamo ucciderti”;
- Roma, nella notte di domenica 27 gennaio 2 giovani aggrediscono e tentano di uccidere 2 addetti alla sicurezza al grido di “siete dei negri di merda”; 26 marzo 2019, madre di pelle scura che teneva la figlia per mano e il figlio di pochi mesi sulle spalle insultata (“nera… vattene!” e altri epiteti offensivi), aggredita e ferita a colpi sui glutei e al volto sino a farla cadere a terra, da un 44enne romano nei pressi del Quartiere “bene” di Roma (il Parioli).
- Raggiungono le cronache anche episodi di discriminazione contro alunne/i con la pelle scura: Lazio, 13 giugno 2018, in una scuola primaria un bambino viene chiamato da un gruppo di genitori “negretto”, la scuola “scusa” i genitori sostenendo si tratti di un epiteto affettuoso;
- 14 ottobre 2018, Bari, “Sei nero, ora ti facciamo diventare bianco”. Con queste parole un gruppo di ragazzini ha ricoperto un bimbo di 8 anni, nato in Italia, figlio di un’italiana e un ivoriano, di schiuma bianca;
- 17 novembre, Poggibonsi, una bambina viene spintonata e insultata a scuola al grido di “vattene via brutta e sporca negra”;
- 21 febbraio 2019, Foligno, un bambino di pelle scura viene messo “all’angolo” da un insegnante accompagnando il gesto con le parole “bambini, guardate quanto è brutto”. L’insegnante affermerà che voleva trattarsi di un “esperimento sociale.
Questa elencazione potrebbe proseguire, sino a riempire pagine di brutte vicende: per ampliare si può ad esempio consultare la testata online de il Manifesto, del 12 aprile 2019, che titola: "L’Italia del razzismo quotidiano. Dieci episodi in due settimane. Discriminazioni. Dal panettiere senegalese pestato a Sondrio alla donna Nord Africana malmenata a Roma per un parcheggio. La scia di violenze percorre tutto lo stivale destando timori" (Redazione di il Manifesto, 2019). Ciascuno di questi episodi ha importanza in quanto singolo caso che colpisce direttamente specifici soggetti, ma anche quale testimonianza della diffusione di pratiche discorsive e comportamenti razzisti e dell’innalzamento della tolleranza rispetto ad essi da parte del tessuto sociale e dei suoi membri.
Certo, i giovani adottati costituiscono un caso emblematico entro il filo conduttore del presente discorso. Si tratta, infatti, di persone che hanno origini straniere e presentano peculiarità somatiche riconducibili a differenti provenienze e che, al tempo stesso, per effetto dell’adozione da parte di genitori italiani, sono giuridicamente italiani a tutti gli effetti, possiedono carta di identità italiana e non permessi di soggiorno, hanno svolto la loro scolarizzazione interamente o prevalentemente in Italia, parlano perfettamente l’italiano, generalmente vestono all’occidentale (come alcuni intervistati precisano quando raccontano di essere etichettati come stranieri). In molti casi le loro famiglie sperimentano e dimostrano nella quotidianità che è possibile costruire una società multiculturale, aperta ed inclusiva, dove l’accoglienza è una risorsa per tutti e la diversità può effettivamente costituire una ricchezza (Crestani, 2018; Lorenzini, 2004).
Ciononostante, sono stigmatizzati come stranieri secondo i più deleteri e retrivi stereotipi. In diverse interviste i giovani riportano atteggiamenti di adulti famigliari che cercano di minimizzare la rilevanza delle aggressioni subite. Eppure si tratta di episodi alimentati da pregiudizi che si sono tradotti in parole sonoramente verbalizzate, talora lanciate con aggressività, dalla derisione, all’insulto, all’allontanamento, all’ostilità, al rifiuto. Togliere importanza agli episodi descritti, non assegnare responsabilità a chi li ha agiti, si presenta coerente con la tendenza generalizzata - sino a non molto tempo fa, in particolare - a non utilizzare il termine “razzismo” e a non giudicare razzisti episodi discriminanti, stigmatizzanti, se non quando si tratti di azioni gravemente distruttive sui soggetti bersaglio dell’aggressione.
Nel tentativo di rendere blando il peso di tali esperienze anche le/i giovani intervistate/i spesso tendono ad allinearsi ad atteggiamenti che sminuiscono ma, nel loro caso, possiamo individuare anche una strategia difensiva che svolge la funzione di ridimensionare la rilevanza di qualcosa che altrimenti, se riconosciuto nella sua valenza offensiva e inferiorizzante, minaccerebbe in profondità una positiva immagine di sé (Lorenzini, 2013). Non possiamo qui condividere questo approccio e neppure quello di chi formula un messaggio che corrisponde a dire “atteggiamenti di questo tipo, nel contesto sociale, ci sono sempre stati, ci sono, sempre ci saranno, e per questo non ci si può fare nulla”. Se è vero che ci sono - da molto tempo e oggi pare, ancor di più -, educativamente, dobbiamo intervenire affinché questo si modifichi.
Trattandosi di esperienze che hanno a che fare con lo sviluppo dell’identità individuale, ne consideriamo le implicazioni di grande rilevanza da un punto di vista educativo.
Allora cosa è cambiato e cosa si può fare? Chiamiamolo: intervento educativo interculturale.
Sembra che oggi gli episodi di razzismo stiano divenendo più frequenti, più pesanti, ma soprattutto più evidenti, non più o non solo mascherati, meno mitigati da una norma antirazzista interiorizzata con l’educazione (Taguieff, 1997) che pare non essere affatto interiorizzata, oppure non assolvere più a una funzione di deterrente. Gli stessi episodi, però, oggi, vengono chiamati con il loro nome, denunciati in modo più esplicito e chiaro, almeno da una parte dei componenti del contesto sociale e culturale. Se da un lato sono più tollerati o persino condivisi e difesi dall’altro stanno divenendo per molti inaccettabili e ci si sta assumendo un po’ di più la responsabilità di contrastarli. Di pensare e agire in direzione diversa.
Possiamo pensare che anche nelle famiglie adottive multietniche possa in tal senso aprirsi maggiormente la possibilità di parlare, tra genitori e figli, delle eventuali difficoltà vissute in prima persona dai figli/e ma anche delle forme di razzismo nonché di sessismo che riguardano altre persone contro le quali sta crescendo l’accanimento e con le quali tanti giovani adottati di origine straniera condividono qualcosa, che lo vogliano o no che lo credano o no.
I tratti somatici, certamente, il colore della pelle, le origini in un certo gruppo umano, ma anche, come ognuno di noi, un contesto di vita sociale e culturale nel tempo presente alla nostra stessa vita. Allora la disamina sopra esposta, non deve accrescere la paura. Deve rafforzare la consapevolezza che fatti e climi culturali e politici in corso, ci riguardano tutte/i e che ognuno per le sue possibilità può fare qualcosa, laddove si senta coinvolto e abbia a cuore.
Bibliografia
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