Autore:
Valentina Tollardo, psicoterapeuta, vicepresidente Associazione Alice ETS
Frequento la scuola secondaria di secondo grado da anni, forse non ho mai smesso davvero di farlo. Terminata la mia, ho iniziato a frequentare le storie sulla scuola dei miei giovani pazienti. Lì ho ritrovato una scuola più competitiva e meno accogliente, nella quale gran parte del valore viene spostato unicamente sul risultato. Ho ritrovato una scuola nella quale si costruisce un gruppo classe non sulla possibilità di cooperare, ma sulla necessità di competere. Ho ritrovato una scuola in cui i genitori ci sono molto, troppo. Ho ritrovato una scuola in cui il patto educativo con la famiglia è confuso, in scacco. Ho ritrovato una scuola, infine, in cui si fatica a collocare i ragazzi al centro: nei pensieri degli adulti, degli insegnanti e delle istituzioni.
Eppure, per paradosso, si parla della scuola sempre con toni allarmistici e preoccupati, in un rimando di temi che di anno in anno è costante: gli atteggiamenti dei ragazzi, la mancanza di educazione, l’aggressività, l’abbandono scolastico. Si parla, senza tuttavia lavorare sul rispetto delle differenze di apprendimento, della velocità, della cooperazione e della peer education: tutte cose che, se progettate seriamente e con convinzione, diminuirebbero gran parte delle difficoltà di cui ci lamentiamo.
È evidente: non abbiamo imparato dai nostri errori di adulti. Non abbiamo imparato dalla pandemia. Con il Covid abbiamo pensato solo a fornire un tempo in cui i ragazzi fossero iper-impegnati: lezioni per 36 ore a settimana e l’obiettivo di garantire la didattica. Poche o assenti però le riflessioni su quanto fossero scarsamente proficue sul piano dell’apprendimento, su quanto fossero stancanti, su quanto mettessero a dura prova l’attenzione. La didattica online ha tutelato la didattica, ma non gli studenti. In altre parole, oltre al voto e al programma, qualcuno si è chiesto che cosa sia rimasto di quegli anni? Non eravamo pronti come adulti a pensare una scuola diversa, la pandemia non si è annunciata, abbiamo fatto quel che si poteva.
Ma dopo? Che cosa è successo?
Un* adolescente in terapia si racconta molto stanc* e si chiede come mai fosse così affaticat*. Ho proposto di contare insieme le ore tra scuola e studio durante una settimana: 60 che aumentano a 65/70 tra aprile e maggio perché si sa, servono i voti per la pagella. Mi chiedo quindi se la pagella e i voti rispecchino davvero ciò che i ragazzi hanno appreso ed imparato.
Se la pensiamo da adulti, 60 ore di lavoro alla settimana come impatterebbero sulla performance? Quanto sulla stanchezza? Le faremmo? Ci arrabbieremmo? Ǫuale sarebbe il nostro pensiero su un lavoro che ci richiede così tanto?
C’è chi le fa, c’è chi le immagina e rinuncia perché vede il compito impossibile. C’è chi prova ma non ha strategie e cade. C’è chi ha più strumenti, c’è chi no. C’è chi ha sbagliato scuola o chi sta affrontando problemi dentro e fuori, più grandi di lui o lei, e la scuola inevitabilmente finisce sullo sfondo. C’è chi semplicemente ha un tempo diverso di apprendimento ed è meno “veloce” e non regge un ritmo di sei verifiche a settimana.
Un’altra persona mi racconta di come il gruppo classe abbia chiesto a un* prof di spostare un compito perché alcuni di loro avrebbero avuto tre momenti di verifica in una stessa giornata: “A me non interessa delle verifiche degli altri prof.”. Provo a riformulare la risposta tenendo dentro le esigenze di tutti: “Che bello ragazzi che vi siate mossi per un problema di pochi. Mannaggia, proviamo a cercare una soluzione insieme perché molti di voi non hanno ancora dei voti…”. Il punto è aver dentro l’altro e se stessi e tutte le esigenze sono importanti.
La valutazione è necessaria, così come terminare il programma; c’è anche la parte di fatica dei docenti che devono sottostare a delle regole che alcuni di loro sentono strette e poco sensate e che, oltretutto, lasciano poco spazio.
Un docente mi racconta, però, una cosa che mi scalda il cuore. Fuori dall’orario scolastico organizza delle lezioni online con i ragazzi che non hanno compreso gli argomenti o che li vogliono approfondire. Costruisce dei riepiloghi per semplificare lo studio, per aiutarli ad organizzare il lavoro. Fa solo interrogazioni programmate. Se l’apprendimento verificato non è adeguato, i ragazzi hanno un’altra possibilità; prendi lo strumento che ti offro oppure no? E poi certo che qui c’è il pezzo di ognuno, la richiesta di esserci e di provarci e la fiducia che possano farcela. Il voto negativo ci sta, ma diventa solo ed esclusivamente un apprendimento che non ha avuto buon esito. Del voto si parla e attraverso il voto si può comprendere ciò che è andato bene e ciò che è invece da migliorare. Si comprendono le fatiche, si suggeriscono strategie. La frustrazione è necessaria: abbiamo però chiaro da adulti qual è la differenza tra frustrazione e umiliazione?
Ce la stiamo cavando un po’ meglio con i bambini a promuovere un modello educativo basato sul rispetto dei minori, sulla costruzione di modi non coercitivi; siamo però un po’ lontani dall’integrarli ad un sistema di regole, di educazione alla frustrazione e di un lavoro sull’autonomia e la responsabilità. Con gli adolescenti siamo lontani su tutto: il non essere più fisicamente piccoli ci porta a tenerci sullo stesso livello e quando le cose non funzionano emerge più facilmente la nostra frustrazione, la nostra paura. È complesso sintonizzarci emotivamente con gli adolescenti e cercare di farci raccontare quello che succede, le loro teorie.
Sintonizzarci a sentirli. Noi abbiamo spesso bisogno di capire LA causa ma spesso ci sono tante cause, interne ed esterne e i ragazzi non sanno trovare le parole per raccontarle.
Ci sono però le loro emozioni da ascoltare e da legittimare: è possibile ascoltarle se non le sporchiamo con le nostre e se non saturiamo lo spazio.
Arriveranno come ogni anno le pagelle: da adulti ci dobbiamo chiedere cosa ci raccontano del percorso ma, soprattutto, cosa sappiamo dai ragazzi del loro percorso. Come valutiamo l’averci provato e le strategie che i ragazzi hanno messo in atto per costruire un salvagente per non affogare. Cosa si portano a casa i ragazzi da questo anno? Cos’hanno imparato per loro stessi?
Alle conseguenze di un anno andato “male” ci pensa la scuola: corsi di recupero, esami di riparazione, ripetizione dell’anno. A voi genitori, solo il pezzo di costruire il senso, perché la scuola è loro e vi tocca tollerare la frustrazione di non poter fare niente di concreto per far studiare gli adolescenti.
L’unico modo in cui i ragazzi iniziano a funzionare a scuola è quello di capire che la scuola serve solo ed esclusivamente a loro e non per deludere o rispettare le aspettative degli adulti. Serve a te, per chi sei, per dove vuoi andare, per avere le parole precise per dire, per costruirti una tua idea sul mondo, per leggerti dentro e per comprendere ciò che ti piace e cosa no.
La scuola è uno spazio di vita, di esperienze, di delusioni, di amore e di amicizia in cui ad un certo punto ci rendiamo conto che ciò che raccontano i poeti e gli scrittori racconta anche di te, con le parole perfette.
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Data di pubblicazione:
Giovedì, Maggio 2, 2024