Autore: 
Sonia Oppici, psicologa giuridica e psicodiagnosta

Bianca, tredici anni, torna da scuola. La sto aspettando sulla porta. Sale le scale, con i capelli lunghissimi e ricci, i jeans larghi e l’immancabile cappellino calato sugli occhi. Fisso con disapprovazione il troppo mascara e la maglietta corta e le dico che dobbiamo parlare.

Si siede davanti a me, con lo sguardo di chi non ci vuole stare, occhi al cielo, cellulare in mano e sbuffi: “Sei la seconda che oggi mi triggera, dopo la prof di italiano. Giornata WOW. Tanto la so già la punizione, una settimana senza mancia e senza telefono”.

La preside della scuola, una persona preparata e sensibile mi ha comunicato, poche ore prima, che Bianca, dopo un periodo di apparente equilibrio, è da qualche settimana che risponde in modo insolente, è provocatoria, il rendimento sta virando al peggio. E ruba.

I professori sono preoccupati perché i compagni stanno iniziando ad isolarla, soprattutto dopo un episodio in cui avrebbe “spintonato” una delle sue amiche.

Bianca è in comunità con il fratello che, al contrario di lei, è sempre educato, disponibile, con ottimi voti e tanti amici. Lei gli vuole bene ma il paragone è impari, quindi meglio definirsi in opposizione. Quindi ha deciso di essere la sorella preadolescente aggressiva per la quale doversi preoccupare, reattiva e indisponente. Spesso distruttiva con chi cerca di starle accanto o le si avvicina troppo.

Non ha mai conosciuto il padre. La madre ha problemi di abuso di sostanze e non riesce a garantire una continuità neppure agli incontri mensili.

Bianca sta aspettando una famiglia affidataria da due anni ma, come spesso accade, non ci sono risorse e dopo averci creduto per un po’, si è arresa. Quando l’attesa precipita nel rifiuto, il desiderio si azzera e le possibilità di futuro sono rigettate. Il dolore e la rabbia si prendono tutto e tredici anni sono un’età impossibile per accettare un destino.

Inizio interlocutoria: “Bianca cosa sta succedendo? Dicono che rubi e che hai litigato con una delle tue amiche”. Recita la parte dell’indignata, smentisce, piange. Vero che risponde male e che non studia, ma rubare no. Insisto: “…Ti hanno vista, forse sarebbe meglio non negare, capire cosa succede e come andare avanti”.

In risposta si alza, sbatte la porta ed esce. La seguo sulle scale e poi nella sua cameretta. Il letto pieno di peluche, la scrivania un campo minato. La musica assordante, un detestabile trap, che è riuscita a fare partire dal cellulare, brandito in modo ostile, probabilmente è per dissuadermi da qualsiasi tentativo di dialogo.

Non demordo e resto immobile seduta sul letto, tra un orso e un coniglio. Lei si siede alla scrivania e mi volta le spalle.

Dopo qualche minuto, si volta: “Cosa vuoi?”

Simulo un'interazione: “Niente. Penso”.

Dritta al punto: “Pensi a cosa?”

Nessuna scorciatoia: “Che sono due anni che aspetti un affido. Penso che non dovrebbe essere così. E mi spiace. Avremmo dovuto fare meglio. Detto questo, credo anche che sia poco intelligente fare fuori tutto quello che hai costruito con tanto impegno e fatica. Mi piacerebbe sapere cosa pensi tu… Ma evidentemente non è giornata”. Mi alzo, le accarezzo i capelli.

Mi guarda, scorgendo una possibilità di uscita: “Quindi niente punizione?”

Vorrei abbracciarla, ma procedo implacabile: “Una settimana senza mancia e cellulare. Teniamo le nostre certezze”.

Sibila una parolaccia che scivola su una voce rotta dal pianto.

In realtà penso che il suo cuore fragile potrebbe spezzarsi. Dovrebbe avere una mancia doppia per il merito della sopravvivenza. Ma trasferire indulgenza sarebbe ammettere che non potrebbe farcela. Mastico frustrazione ed impotenza, insieme alle sue educatrici, sconsolate quanto me.

I giorni successivi non va meglio. Sul profilo di WhatsApp compare una sua foto con il volto nascosto da un cappuccio, la frase di una canzone dei Maneskin: “Ieri ero quiete perché oggi sarò tempesta”. Minacciosa e inquieta.

Un venerdì pomeriggio viene accompagnata al corso di nuoto, insieme agli altri ragazzini, dalla sua educatrice. “Guardami, sono nella corsia n. 3, cuffia nera”. Nessuna cuffia nera in vasca.

L’educatrice entra negli spogliatoi e la trova vestita, sola e in lacrime: “Ti sei accorta che non c’ero”. Quasi incredula. Perché nascondersi e non essere cercati è una sofferenza assoluta.

Qualche giorno dopo, Bianca bussa alla porta. In mano un sacchetto: dentro un astuccio, un cappellino e 5 euro: la refurtiva.

Si appiattisce sulla sedia, con lo sguardo dei giorni peggiori: “Dicono che sono una disagiata, un’adolescente a rischio”.

La seguo: “Chi lo dice?”

Affranta e finalmente sincera. Il mascara sciolto che le annerisce le guance: “La mia amica, quella che ho preso a spintoni. Lo ha sentito da sua madre. Ho guardato su Google e sono proprio io… Figli di famiglie multiproblematiche, che hanno scarsa autostima, finiscono nella devianza”. Le parole non sono mai inerti: ci sono parole che curano e parole che fanno male. E una volta dette non ci appartengono più, ma si depositano nell’anima di chi le ascolta.

Le passo un fazzoletto: “Rischio è una parola che mi piace. Rischiare vuol anche dire un po’ superarsi. Tu rischi ogni giorno. Rischi quando aspetti una famiglia, perché provi a immaginarti un futuro diverso. Sperare che vada meglio è rischiare”.

Singhiozza e scuote la testa: “Ma loro non lo intendono come lo dici tu”.

“Vero, ma noi sì. Le parole hanno il senso e il significato che decidiamo di dare”.

Mi guarda furba e mette il sacchetto sulla scrivania: “Quindi, questi potrei dire che li ho presi in prestito ma che li avrei ridati?”

“No, questi li hai rubati. Ma apprezzo che tu li restituisca. E ne saranno felici anche i tuoi professori e i tuoi amici”.

Non è convinta: “Puoi ridarli tu? Io volevo farli arrabbiare. Loro, tanto, hanno tutto”.

Winnicott diceva che i ragazzini deprivati come Bianca se rubano qualcosa non sono alla ricerca dell’oggetto rubato, ma replicano la richiesta di ciò che per loro è più importante: la madre. Il sentirsi presenti nella mente della madre.

Bianca non ha la mente e il cuore di una mamma in cui sostare e proteggersi. Ne aspetta una.

Che potrebbe non arrivare mai. Allora, l’unica alternativa è farne a meno.

Difendersi e convincersi di non meritare di essere cercati.

Questo è il vero rischio. In bilico tra il perdersi e il desiderio di ritrovarsi.

 

Nel rispetto della privacy, i racconti riportati sono narrazioni integrate di esperienze e non sono riconducibili a casi specifici.

 

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Data di pubblicazione: 
Mercoledì, Aprile 3, 2024

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