Autore: 
Antonella Avanzini

Quando iniziammo

Quando iniziammo il percorso dell’adozione, il primo passo fu consegnare al tribunale dei Minori la cosiddetta “domanda di adozione”. All’epoca, circa 13 anni fa, si doveva indicare una disponibilità specifica, riferita al “grado di salute” dei bambini adottabili: con handicap, con handicap lieve e/o reversibile, sano. Personalmente pensai a quelle opzioni parecchio, ma non era chiaro cosa si intendesse e a nulla valsero le mie domande agli operatori dell’equipe o alle varie psicologhe dei corsi pre adozione, a chiarirmi cosa significassero nella realtà quelle definizioni. Un bambino cieco da un occhio, era un bambino con handicap, con handicap lieve o reversibile, o sano?

Noi indicammo che davamo disponibilità a handicap lieve e/o reversibile. Lo facemmo senza alcuna cognizione di causa. Così, per non sbilanciarci né in un senso né nell’altro. Al momento di scegliere paese ed ente dove adottare, la questione salute dei bambini riemerse prepotentemente. I numerosissimi incontri informativi che facemmo con i vari enti ci lasciarono ancora più confusi in relazione allo stato di salute dei bambini. Alcuni enti si mostravano estremamente ottimisti, altri piuttosto sinceri ci preparavano anche alla possibilità di malattie invalidanti. Ricordo in particolare il racconto di un ente, in relazione alle adozioni in Vietnam: si prospettavano numerose e di bambini con una età media piuttosto piccola, ma che riguardavano soprattutto bambini con epatite C; addirittura capitò un bambino che si accorsero solo in Italia che era positivo all’HIV. Mi facevo i cosiddetti “film mentali” immaginando una realtà quotidiana con un bambino con una patologia. Mi resi conto che mi spaventava meno una patologia grave, ma curabile o gestibile, rispetto ai problemi comportamentali. Mi aveva raccontato una mamma adottiva del suo bambino, che si svegliava ogni notte piangendo terrorizzato e che picchiava la testa contro il muro e rimaneva sveglio per ore. Ecco, ero più spaventata da queste situazioni.

La Federazione Russa

Demmo l’incarico a un ente per adottare uno o più di fratelli in Russia, e, avuto l’abbinamento con due bambini, partimmo senza sapere pressoché nulla: erano un maschio più piccolo e una femmina più grande di sette anni. Niente nomi, niente età del fratello, niente schede sanitarie. Niente di dove erano. Abbiamo visto i nostri figli e ci sono sembrati strepitosi. Bellissimi e sanissimi. Il piccolo aveva appena compiuto quattro anni. Ci dicevano: “avete visto come è piccolo? Non parla ancora”. In effetti emetteva strani striduli gridolini ma noi non capivamo, a prescindere, cosa dicesse, considerato che parlava russo. Piccolo era piccolo. Aveva vestitini enormi per lui, e passava la maggior parte del tempo dell’incontro a tirarsi su i pantaloni. Ma noi cosa ne sapevamo di quanto deve essere alto un bambino di 4 anni? Per noi era bellissimo.

Andammo a trovare i bambini anche il giorno dopo. Mio marito aveva in borsa una piccolissima torcia di emergenza a pile. Giocammo con il piccolo con questa torcia, e non si sa come facendo finta di fare il dottore guardammo anche in bocca e in gola al piccolo. Si, insomma, ci sembrò che c’era tutto quello che ci doveva essere e fummo soddisfatti. Ci sentimmo poi davvero stupidi. Ci sentimmo ancora più stupidi quando viste le insistenze delle signore dell’istituto, chiedemmo alla referente dell’ente di poter fare una analisi o un controllo medico per sapere se il bambino fosse affetto da nanismo. In realtà, era già per noi nostro figlio, nano o non nano, per cui di fronte alla risposta della referente che con questa richiesta rischiavamo di allungare ulteriormente i tempi della procedura, rinunciammo subito all’idea.

Ci vennero velocemente lette le schede anagrafiche e sanitarie dei bambini. Certo i medici russi e le traduzioni russe erano molto dirette e un po’ grossolane, se ci avessero letto prima dell’incontro con nostro figlio la sua scheda sanitaria, saremmo rimasti molto più impressionati di quello che fu poi nella realtà. Siamo entrati in Italia con i bambini dopo cinque mesi dal nostro primo incontro; dopo una quindicina di giorni dall’arrivo, facemmo il canonico check-up in ospedale. Già da subito ci rendemmo conto che il maschietto, oltre a essere piccolo, era anche molto molto magro. A quattro anni e mezzo pesava dieci chili e mezzo. Mangiava pochissimo, mai a tavola, casomai da solo e dopo, quando gli altri non c’erano. Spesso stava male, ma ci mettemmo parecchio a capire che si scompensava velocemente e bastava una giornata un po’ più attiva per mandargli in tilt il metabolismo.

Le visite

Iniziammo a fare visite con vari specialisti, dallo psicologo all’endocrinologo, dall’allergologo al gastroenterologo alla ricerca di una soluzione che permettesse a questo bambino di crescere, ma ogni visita era una delusione. Fino a quando non ci rivolgemmo per una visita di gastroenterologia a un ospedale di Bologna, che prese in carico il piccolo e arrivarono a formulare una vera e propria diagnosi di sindrome feto-alcolica, la famigerata FAS, terrore di tutte le coppie che vanno in Russia ad adottare. Onestamente a me non fece nessun effetto. Sapevo che non era quel foglio di carta che rendeva mio figlio diverso da quello che era. Perché quello che era mio figlio non me lo hanno detto i medici, non me lo hanno detto gli esami. Lo vedevo io tutti i giorni. Lo vivevo io tutti i giorni.

La difficoltà grande di mio figlio, e la mia difficoltà come genitore, non è stato il suo probabile rachitismo né la scarsa crescita, la debolezza dei muscoli mascellari o l’operazione di orchidopessia. La sua più grande difficoltà è stata riconoscere sé stesso, il sentirsi per anni, come lui stesso ci disse, “nessuno”. La cura più difficile, è stato portare qualcuno che si considera niente a riconoscersi come persona che vale. Rendere persona quel “nessuno”, che a quattro anni e anche ora dondola molto molto spesso, che difficilmente incrociava lo sguardo, che era in movimento continuo e che si avvicinava alle persone solo per poco tempo alla volta, è stato l’impegno per noi genitori più grande. Accettare la sua fragilità, così poco visibile con un esame medico, è stata la vera cura indispensabile giorno dopo giorno per mio figlio.

Era stato confortante pensare, durante l’iter, che per qualunque malattia bastava attivarsi, andare da uno specialista e fare le cure necessarie. Ci eravamo cullati in un pensiero di onnipotenza: a tutto c’è soluzione, basta fare. Basta impegnarsi. Be’, non è così. Ci si può impegnare, ma le risposte spesso non sono immediate o facili, non sono quelle che servono. Spesso non sono giuste le domande. Spesso non serve nemmeno farle. Perché i bambini non sono macchine che basta aggiustarle se non funzionano. Non sono meccanismi difettati. Sono persone, che prima di tutto hanno bisogno di ascolto, di qualcuno che entri in sintonia con loro, di essere accolti così come sono, con i loro limiti, a volte grandi. Se abbiamo sinceramente accolto e condiviso quei limiti, possiamo cercare, insieme, davvero fianco a fianco, di superarli e di guarirli con i medici e la medicina.


Il testo qui riportato si trova in Salute e adozione a cura di Fabio Antonelli e Piero Valentini in cui troverete una parte interamente dedicata alla sindrome feto-alcolica. Nel nostro Magazine trovate anche un articolo di qualche tempo fa qui.


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Data di pubblicazione: 
Domenica, Maggio 30, 2021

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